Kengo Kuma, il suono segreto che fa l'architettura

Marco Imperadori, Panorama, Agosto 9, 2023
PARA PARA, IL PIENO E IL VUOTO; SARA SARA, IL FLUIDO E IL MORBIDO; GURU GURU,  IL TURBINE E IL TORNADO. PAROLE GIAPPONESI ONOMATOPEICHE CHE RIMANDANO A COSTRUZIONI IN ARMONIA CON GLI ELEMENTI DELLA NATURA. UNA MOSTRA A PALAZZO FRANCHETTI ESPONE I PROGETTI VISIONARI DEL CELEBRE ARCHITETTO NIPPONICO.
 
L' "onomatopea" è la figura retorica che riproduce il rumore, il suono, l'effetto, la sensazione, potremmo dire, riferibile a un oggetto o a un soggetto, attraverso i suoni di una lingua determinata. Kengo Kuma, uno dei grandi maestri dell'architettura contemporanea e unico architetto nominato nella lista delle 100 persone più influenti al mondo da Time Magazine nel 2021, oggi 68 enne, utilizza onomatopee giapponesi per immaginare le proprie architetture, per descrivere con un linguaggio astratto e sensoriale ciò che non si può esprimere in modo razionale.
Il rapporto dialettico tra Natura e Artificio architettonico elaborato da Kuma ed esposto mirabilmente in questi giorni e fino al termine della Biennale d'Architettura (26 novembre 2023) a Palazzo Franchetti sul Canal Grande, risulta dal suo approccio «anti oggettuale», privo di cliché stilistici: lo spazio costruito risulta da una sorta di disintegrazione degli elementi costruttivi che Kuma chiama "particelle". Questa "particellizzazione" dell'architettura, fatta di frammenti armonici che creano un'unità compositiva, ci ricorda il rapporto tra le foglie e la chioma di un albero, tra parte e tutto, in grado di generare "onomatopee sensibili" per chi faccia esperienza di queste architetture.
 
Nella mostra dal titolo Kengo Kuma: Onomatopoeia Architecture, curata da Roberta Perazzini Calarota e Chizuko Kawarada, si può notare la progressione dimensionale: dal piccolo modello alle sculture/modelli "site specific" di Albero della Barca e Laguna, alle fotografie delle architetture veramente realizzate. In molti progetti la Natura pare riabbracciare i materiali utilizzati così come Venezia e Palazzo Franchetti con il suo giardino sul Canal Grande accolgono le opere esposte secondo l'esperienza onomatopeica pensata appositamente per questo luogo e per questa città speciale.
Le risonanze proposte ricordano l'immagine della filosofia zen: il sussurro, l'effimero, l'imperfezione e l'invecchiamento materico (che in Venezia è un evidente tratto estetico) che chiamiamo Wabi Sabi. Alcuni piccoli padiglioni ricordano la stanza del tè, ben descritta nel celeberrimo libro di Okakura Tenshin, dove l'assonanza è danzante…onomatopea.
 
Altro elemento fondamentale è la penombra, descritta nel Libro d'Ombra di Junichiro Tanizaki (Bompiani) in cui il gradiente luminoso, ombra e luce filtrante plasmano una sensazione empatica con la natura e generano benessere. L'armonia e la risonanza che si generano sono allo stesso tempo poetiche e primitive, ancestrali (quasi di pancia potremmo dire). Sembra sempre che Kuma voglia riportarci ai primi "shelter", ripari protettivi, che derivano da un pensiero shintoista, religione panteista per eccellenza dove la vibrazione cosmica e materiale trova risonanza nelle nostre dirette sensazioni.
La mostra di Palazzo Franchetti si articola secondo un percorso tematico e spaziale molto scenografico. Saliti dallo scalone principale si viene accolti dalla scultura «site specific» Albero della Barca che, con la sua esplosione tsun tsun, guida il visitatore verso le sale espositive. All'inizio vi è la biografia e l'opera di Kengo Kuma a cui segue l'introduzione generale al concetto di «onomatopea», La prima sala contiene para para, il pieno e il vuoto, a seguire sara sara, fluido e morbido e guru guru, turbine, tornado nella seconda stanza. La terza ci presenta suke suke, orizzontale, piano mentre nella quarta stanza troviamo giza giza, duro, pieghe e zara zara, ruvidezza/grezzo, percezione.
Segue la quinta sala con tsun tsun, pressione, esplosione e pata pata, leggero, piega e quindi la sesta con pera pera, piano, finezza e fuwa fuwa, elasticità, membrana. La settima stanza ospita moja moja, onda, linea e funya funya, elasticità, membra. na e infine l'ottava stanza con zure zure, che pure si rifà ai concetti di elasticità e membrana.
 
A chiudere questo viaggio nell'onomatopea architettonica vi è la stanza con i video e il bookshop (catalogo originale di Dario Cimorelli Editore) verso l'uscita in una perfetta scenografia che culmina con il climax del padiglione Laguna. Come un'onda di alluminio rivestito di sabbia, Laguna si solleva dal giardino sul Canal Grande: porosa, effimera zara zara fatta di ruvidezza (la sabbia del Piave applicata sulla lamiera stirata) e di percezione (i riflessi solari che danno bagliori sul bordo delle lame di alluminio che la compongono). Dovendo trovare alle 13 onomatopee di Kuma una sorta di traduttore automatico si potrebbe scegliere Italo Calvino e due sue opere celeberrime: Le città invisibili e Lezioni americane.
Quelle di Calvino sono città onomatopeiche a partire proprio dai loro fantastici nomi così come i principi delle Lezioni di leggerezza, velocità, molteplicità, esattezza, visibilità e consistenza ritornano nell'opera del grande maestro giapponese. La percezione di sinestesia e di poli-sensorialità veicolata dalle onomatopee che Kuma suggerisce nella mostra di Palazzo Franchetti ci avvicina a un concetto di architettura che definisce padiglioni, edifici e paesaggi reali e onirici allo stesso tempo, come una «città invisibile», come i mondi di Hayao Miyazaki o la musica di Ryuchi Sakamoto la cui eco, secondo Kuma, resta dentro di noi come il suono della materia.