Biennale 2023: la mostra sull’architettura onomatopeica di Kengo Kuma, spiegata

Francesca Gugliotta, Interni Magazine, Maggio 11, 2023
In occasione della Biennale Architettura di Venezia, Acp Palazzo Franchetti ospita la mostra "Kengo Kuma - onomatopoeia architecture": ce la siamo fatta raccontare da Marco Imperadori, amico del maestro giapponese e autore del catalogo
 

In occasione della 18esima Mostra internazionale di architettura di Venezia, dal 14 maggio al 26 novembre Acp art capital partners - Palazzo Franchetti ospita la mostra Kengo Kuma - onomatopoeia architecture, a cura di Chizuko Kawarada (partner dello studio Kengo Kuma&Associates), e Roberta Perazzini Calarota (presidente di Acp art capital partners).

 

COS'È L'ARCHITETTURA ONOMATOPEICA DI KENGO KUMA?

In mostra, per la prima volta, l'architettura onomatopeica di Kengo Kuma, cioè la capacità del maestro giapponese di raccontare i suoi progetti a collaboratori e clienti tramite parole onomatopeiche, in modo semplice, quasi infantile, libero da sovrastrutture teoriche.

"Se dovessi spiegare i miei concetti a parole, sarebbe difficilissimo farmi capire", dice Kuma, "allora li esprimo attraverso i suoni, che evocano delle materialità".

Così l'architetto ha identificato tredici parole giapponesi onomatopeiche, intorno alle quali ruota la mostra, che sintetizzano i punti cardine della sua pratica progettuale, da 'para para', che significa 'pieno e vuoto', a 'zure zure' che vuol dire 'sfalsamento, flessibilità'.

"Ogni volta che vado a Venezia e mi sento vicino all'acqua come 'materiale', penso al dialogo tra l'umano e il materiale", continua Kuma.

 

COSA VEDREMO ALLA MOSTRA SULL'ARCHITETTURA ONOMATOPEICA DI KENGO KUMA A VENEZIA?

"In questa mostra a Palazzo Franchetti vorrei mostrare come io creo il dialogo con i materiali. In questo dialogo non faccio quasi mai uso di un linguaggio influenzato dalla logica. E quando lo uso, è impossibile farmi capire. Ecco perché uso sempre l'onomatopea. La materia e il corpo parlano tra loro e risuonano quando usano questo linguaggio primitivo".

A spiegarci la mostra è Marco Imperadori, docente del Politecnico di Milano e amico di lunga data di Kengo Kuma. Imperadori ha dato il suo contributo scientifico all'esposizione e ha scritto il catalogo: Kengo Kuma - onomatopoeia architecture, Dario Cimorelli Editore, 144 pp, 30 euro.

 

CI SPIEGA IL TITOLO DELLA MOSTRA ONOMATOPOEIA ARCHITECTURE?

Marco Imperadori: "Questa mostra è veramente originale perché Kengo Kuma per la prima volta racconta il suo metodo singolare di esprimere le sue idee attraverso suoni, associando i concetti architettonici a parole onomatopeiche.

Un'esposizione da non perdere anche perché l'architetto a Venezia svela delle sfumature più intime e personali, come il fatto di essere attratto dai materiali morbidi perché gli ricordano la madre.

Il titolo della mostra Onomatopoeia architecture cita il libro Onomatopoeia scritto da Kuma nel 2015, in cui l'architetto dice: "Se dovessi spiegare la mia idea di architettura a parole, sarebbe difficilissimo farmi capire; allora mi esprimo attraverso i suoni che evocano delle materialità, con onomatopee che sono più vicine alla sensazione fisica".

Kengo Kuma con i suoi termini onomatopeici vuole creare un ponte tra l'uomo e la natura, è un approccio molto poetico e molto giapponese.

Per questa mostra, Kuma identifica tredici parole giapponesi onomatopeiche, il cui suono ripetuto, un po' buffo e un po' da manga, traduce alcuni termini chiave della sua pratica progettuale.

L'architetto usa queste parole-suono per comunicare e trasmettere i progetti ai suoi collaboratori, ai clienti, per evocare delle sensazioni, dicendo, per esempio: "Vorrei che questo progetto fosse più 'para para', più giocato sul pieno e vuoto".

È un concetto molto originale in architettura: anziché utilizzare elucubrazioni teorico-filosofiche complesse, Kuma spiega l'empatia con i materiali puramente attraverso i suoni. E aggiunge: "Dobbiamo fare un'architettura a misura d'uomo e di natura, per risuonare con i materiali attraverso una voce, che è appunto quella espressa da queste parole onomatopeiche".

 

CHE LEGAME SI INSTAURA TRA LA MOSTRA, L'ARCHITETTURA DI KENGO KUMA E LA CITTÀ DI VENEZIA?

Marco Imperadori: "Questa mostra è anche un omaggio a Venezia, "la città più onomatopeica che ci possa essere", come sottolinea lo stesso Kuma, una città invisibile, costruita sull'acqua, che si riflette, si rispecchia, che ricorda anche l'estetica giapponese, l'imperfezione, ciò che si rovina a causa del contatto perenne con l'acqua.

Quindi la mostra parla anche dell'effimero, che è una caratteristica che accomuna lo spirito orientale e la città lagunare".

 

COME È ORGANIZZATA LA MOSTRA? COSA VEDRÀ IL PUBBLICO?

Marco Imperadori: "La mostra è ospitata a Palazzo Franchetti, su Canal Grande. Nel grande giardino esterno c'è Laguna, una delle due opere site-specific di Kengo Kuma realizzate dall'artigiano D3Wood, basato a Lecco: Laguna è una lamiera d'alluminio alta cinque metri, fresata, stirata e poi sabbiata con sabbia del Piave, che, come una grande onda, o come una maxi rete, emerge dal giardino e 'cattura' il visitatore.

Entrati nel sontuoso palazzo, ci si imbatte in Albero della barca, la seconda opera site-specific, una scultura 'tsun tsun' direbbe Kuma usando una delle sue onomatopee, una sorta di onda, o un fasciame di una barca esplosa per la forza del mare, in lame di castagno, un legno resistente all'umidità, scelto da Kuma perché usato in passato per le fondamenta di Venezia.

Poi si entra nel vivo della mostra, una promenade architetturale scandita dalle sale suddivise secondo le tredici onomatopee scelte da Kuma, dove ogni onomatopea è spiegata attraverso le fotografie e i plastici dei progetti più recenti dell'architetto.

I visitatori avranno un'audio-guida, inoltre in ogni sala c'è un cartellone in cui l'architetto ha tradotto le onomatopee disegnando a mano i kanji, cioè gli ideogrammi giapponesi, e il corrispettivo concetto grafico. Un esempio? 'Para para', che in italiano significa "pieno e vuoto", è rappresentata da dei puntini".

 

QUALI SONO LE TREDICI ONOMATOPEE SCELTE DA KENGO KUMA, RACCONTATE NELLA MOSTRA?

Marco Imperadori: "La prima, 'para para', evoca il pieno e il vuoto, ed è rappresentata da architetture porose, come lo stadio progettato da Kengo Kuma per le Olimpiadi di Tokyo 2020.

La seconda onomatopea è 'sara sara' e significa fluido, morbido: esempio straordinario di questa fluida morbidezza, fatta di luce, penombre e aria, è la Villa imperiale Katsura di Kyoto. La terza è 'guru guru', e vuol dire 'fluido/tornado-vortice', spiegata da Kengo Kuma con l'edificio The Darling Exchange a Sydney, un piccolo 'tornado urbano'.

La quarta onomatopea è 'suke suke', cioè 'orizzontale, piano', evidente nella Glass/Wood House di New Canaan, dove il piano orizzontale si stacca da terra, in maniera sorprendente e originale, grazie a sottili colonne metalliche e travetti lignei, come un nido supportato dai fusti degli alberi circostanti.

Poi c'è 'giza giza', che significa 'duro, piega' e rimanda alla sensazione di durezza e rigidezza delle particelle costruttive; 'zara zara', la texture grezza; 'tsun tsun', 'pressione, esplosione', rappresentata dalle aste sottili in cipresso giapponese che si incrociano, come i rametti di un nido, per dare vita al negozio Sunny Hills di Tokyo.

Poi c'è 'pata pata', 'leggero, piega'; 'pera pera', 'piano, finezza', cioè luce, dolcezza, sottigliezza; 'fuwa fuwa', che sta per 'elasticità, membrana', e si riferisce alla morbidezza. Infine 'moja moja', cioè 'onda, linea'; 'funya funya', cioè 'rilassato e soffice', e 'zure zure', 'sfalsamento e flessibilità'".

 

QUALE TRA I PROGETTI IN MOSTRA SINTETIZZA AL MEGLIO L'APPROCCIO DI KENGO KUMA?

Marco Imperadori: "Sceglierei Kodama, l'opera di Kengo Kuma per Arte Sella, a Villa Strobele in Trentino, che ho seguito in quanto direttore scientifico della parte architettura e design del parco. Kodama significa 'spirito della foresta', è una piccola stanza del tè in mezzo al bosco che esprime l'onomatopea 'pata pata', cioè 'leggero e pieghe', un nido in cui la luce filtra limpida fra le particelle lignee.

Un'opera che da un lato sintetizza il concetto di Kuma della tripla porosità,caratterizzata dal triplo vuoto fatto di esterno, interno e porosità fra le tessere strutturali, dall'altro esprime la teoria della parcellizzazione, perché è formata da tanti piccoli pezzi di legno uniti.

Kengo Kuma ha scritto molti libri sulla teoria della parcellizzazione: secondo l'architetto noi umani abbiamo un corpo piccolo e non possiamo raffrontarci a una grande scatola di cemento armato, i materiali moderni per lui sono spesso fuori scala umana.

Il maestro invece usa il legno e i materiali che può frammentare, per avvicinare l'architettura all'uomo, per creare un dialogo intimo tra l'edificio e chi lo vive. Ecco perché le sue facciate e le sue strutture sono sempre parcellizzate, fatte di tanti elementi, è come guardare un grande albero con tante foglie, una divisione che ti avvicina all'albero, anche se alto quaranta metri.

Un'altra opera fondamentale è il già citato stadio di Tokyo per le Olimpiadi 2020. A vincere il concorso per la realizzazione dello stadio fu inizialmente Zaha Hadid, ma poi il progetto venne bloccato perché troppo costoso e alieno dal contesto. Più convincente fu il progetto di Kengo Kuma: un edificio 'para para', pieno-vuoto, formato da dischi di vari livelli alternati da pieni e vuoti, come una grande pagoda circolare".

 

IL MODO IN CUI KENGO KUMA SI PONE VERSO I MATERIALI È UN PUNTO CHIAVE DELLA SUA ORIGINALITÀ.

Marco Imperadori: "Kengo Kuma racconta: "Attraverso il materiale possiamo imparare a conoscere il luogo e avvicinarci alla sua specificità. Diventando amico dei materiali, ho potuto imparare le cose più importanti".

Quando Kuma visita un posto è come se dovesse sentire tutte le sensazioni del luogo. Quindi se ci sono edifici storici va, vede, tocca, e da lì comincia il suo processo creativo, spinto dalla volontà di entrare in empatia con il territorio e con i materiali locali attraverso questo traduttore che sono le onomatopee".

 

KENZO TANGE, MAESTRO GIAPPONESE DELL'ARCHITETTURA, NEGLI ANNI SESSANTA FACEVA AMPIO USO DEL CEMENTO. PERCHÉ KUMA SI DISCOSTA, PREFERENDO MATERIALI ANTICHI E NATURALI COME LEGNO, BAMBOO, TERRA CRUDA E CARTA WASHI?

Marco Imperadori: "Kengo Tange è stato il 'samurai shogun' degli architetti giapponesi. Siamo negli anni tra i Sessanta e i Settanta, è il boom economico giapponese.

I progettisti come Tange, ma anche i Metabolisti e gli autori come Arata Isozaki e Kisho Kurokawa puntano alla modernità, costruendo imponenti edifici muscolari in cemento.

Kuma non segue questa linea, ma vuole reagire, perché si ricorda della Tokyo che aveva conosciuto da bambino, una Tokyo piccola e diffusa, fatta di casette di legno, quella smallness tipica dell'Asia spazzata via dalla grande bolla economica.

Decide di fare un dottorato di ricerca con Hiroshi Hara, il suo vero maestro, e va in Africa a studiare i villaggi; osservando la frammentazione degli spazi e delle casette africani, Kuma teorizza il concetto di parcellizzazione, che lo accompagnerà in tutta la sua carriera".

 

QUANDO HA CONOSCIUTO KENGO KUMA?

Marco Imperadori: "Vent'anni fa, e siamo sempre rimasti in contatto, è laureato ad honorem al Politecnico di Milano, sono stato io a perorare la causa, ne siamo fieri.

È una persona umana, per nulla una star, nonostante brilli di luce propria. È molto amico, disponibile, quando ci vediamo usciamo a cena, anche con la moglie Satoko Shinohara, anche lei celebre progettista, e il figlio Taichi che lavora nello studio del padre.

Kuma è una persona vera, come la sua architettura. Nonostante il suo successo, non segue dei cliché, ogni sua architettura non è mai ripetitiva, c'è sempre una continua variazione, e questo è proprio dei grandi maestri.

Inoltre dedica molto tempo alla formazione, insegna all'università di Tokyo, vuole trasmettere".

 

QUANDO NASCE LA VOCAZIONE DI KENGO KUMA?

Marco Imperadori: "Da piccolo voleva fare il veterinario. Poi, un giorno, da bambino, mentre nuotava a dorso nella piscina dello stadio Yoyogi disegnato da Kenzo Tange per le Olimpiadi di Tokyo del 1964, guardando il soffitto imponente, quasi schiacciante, in cemento armato, decide di voler fare qualcosa di diverso, di più leggero, di piccolo, di legno, qualcosa di più umano.

È interessante notare come Kuma progettando lo stadio per le Olimpiadi di Tokyo del 2020 abbia chiuso un cerchio, discostandosi completamente dallo stadio muscolare, e poco empatico, di Kengo Tange degli anni Sessanta".